Don Giorgio Carli |
Contiene due rivoluzioni, una nel diritto e una nella psicanalisi, la sentenza del tribunale di Bolzano, sulla quale Rai3 manda in onda una trasmissione («Ombresulgiallo») oggi in prima serata: la sentenza chiude il processo di una ragazza contro un prete che l’avrebbe violentata da quando lei aveva nove anni fino a quando ne aveva quattordici. La ragazza, in quegli anni zitta e docile (nove anni son pochi, non capiva nulla; però quattrodici son tantini), più tardi cominciò a patire dei disturbi per cui entrò in una terapia analitica, e l’analisi avrebbe fatto riemergere in lei ricordi lancinanti, così dettagliati da convincerla che contenevano la verità. Si aprì un processo che si basava su un terreno insidioso: può l’inconscio testimoniare la verità?
Sul lettino
La ragazza s’è fatta 350 sedute di psicanalisi, una particolare psicanalisi che non è freudiana né junghiana (poi ne parleremo), ha discusso con l’analista e ha portato in tribunale numerosi sogni, ma ce n’è uno in particolare, in cui lei sogna violenze di marocchini in un bar che si chiama San Giorgio: nome allarmante, perché le violenze che lei denuncia sarebbero avvenute in una parrocchia che si chiama San Pio X, e il prete che le avrebbe compiute si chiama don Giorgio.
Questo sogno è sembrato determinante. Ma se fosse determinante, sarebbe il primo caso in cui un colpevole risulterebbe «incastrato da un sogno» (o, peggio, da una fantasia). E’ qui la rivoluzione. Nell’attribuire al mondo dei sogni la funzione di garanzia sul mondo reale, tanto forte da reggere una condanna pesante. In primo grado infatti (20 febbraio 2006) il prete fu assolto, ma in secondo grado (16 aprile 2008) fu condannato a 7 anni e mezzo. L’assoluzione in primo grado dipese da alcuni punti deboli dell’accusa, che il prete aveva fatto notare: se la ragazza mi avesse visto spogliato, osservò, saprebbe che sul mio corpo c’è un segno particolare (la circoncisione). Il secondo grado di giudizio fu deciso riesaminando lo stesso materiale probatorio discusso in primo grado, ma stavolta con un altro orientamento, più disposto a riconoscere una vicinanza tra sogno e realtà, tra materiale onirico e prove a carico.
L’amico che non c’era
Otto anni e mezzo di carcere, con quelle motivazioni, sono la fine, per un prete. Adesso si pronuncerà la Cassazione. La Cassazione è attesa a un passo storico. Quel che deciderà lascerà una traccia nella storia del diritto e nella storia della psicanalisi. Perché dovrà pronunciarsi sull’utilizzabilità del sogno in tribunale, il suo rapporto col vissuto, il grado in cui il sogno deforma o conferma la realtà, e le possibilità che la memoria, perduta per una serie di traumi, possa venir ricostruita con particolari tecniche psicanalitiche. La ragazza infatti non è andata in un’analisi freudiana o junghiana, ma s’è sottoposta a un metodo che si chiama «distensione immaginativa», che non è molto lontano dall’ipnosi. Questo metodo dovrebbe permettere alla memoria di allargarsi fino a rioccupare il terreno dal quale s’era ritirata. Rioccupando quel terreno, la ragazza vi ha visto, sopra, don Giorgio, qualche volta con un amico, le loro ripetute violenze, come quelle che nelle cronache talvolta commettono i marocchini. Dimenticavo: l’amico di don Giorgio, un ragazzo, che non ricordava nulla, fu invitato a sottoporsi anche lui alla «distensione immaginativa», ma anche alla fine della cura non ricordava niente.
Era il tentativo di «costruire un testimone mediante la psicanalisi»? Comunque, è fallito. Nessun dubbio però sul fatto che quelle violenze, per la ragazza, siano verità, tant’è vero che la fanno ammalare, la caricano di sintomi. Il problema è se i sintomi siano il prodotto della realtà esterna o della realtà interna. Gli psicanalisti dicono che non è la biografia o la storia che genera nevrosi, ma la nevrosi che genera biografia e storia. Perciò i sogni e le fantasie si usano in analisi, non nelle aule giudiziarie. Se i sogni di coloro che vanno in analisi fossero prove a carico, non basterebbero tutte le prigioni ad accogliere i loro famigliari e amici e conoscenti. Quando leggiamo che un imputato è «incastrato dal dna, o da una scheda telefonica, o da una impronta», ci sentiamo sollevati; ma adesso leggiamo che un imputato è «incastrato da un sogno» o «da una fantasia indotta», e francamente ci sentiamo allarmati.
Psicolife non si permette di commentare sul termine usato come «distensione immaginativa», per l'ovvia e banale definizione di una tecnica come fosse un processo analitico dall'evidente epistemologia lasciata volutamente "confusa" e dal cronista che dallo psicanalista di cui ci si guarda bene dal fare il nome.
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